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Internet of People. Una storia di dati, dispositivi e relazioni

Il famoso claim di un’azienda della grande distribuzione recita così: Persone oltre le cose. Nel caso di questo post possiamo adattarlo in “Persone insieme alla cose” o “Persone dentro alle cose”. 

Parliamo di dispositivi e dati ed un modo per non restare #Immuni e lasciarsi attraversare dai quesiti ai quali siamo chiamati a rispondere nell’ultimo periodo. 


La diffusione dei dispositivi personali (mobili) e delle tecnologie di comunicazione pervasive ha generato in maniera esponenziale una totale convergenza tra il mondo fisico degli utenti e il “cybermondo” delle applicazioni e dei servizi Internet. Dati generati nel mondo fisico (da sensori incorporati nei dispositivi e dai corpi degli uomini) si dirigono verso la rete dove vengono elaborati, scambiati, tradotti in nuove informazioni. 


E’ ormai obsoleta l’immagine di Internet come una rete di pc collegati. Piuttosto proviamo ad immaginarla come un ecosistema dinamico in cui persone/dati/oggetti interagiscono costantemente attraverso lo scambio dati ed informazioni.

 

We are all now connected by the Internet, like neurons in a giant brain

Stephen Hawking

 

Tempo di running, prime ore del mattino. Quando iniziamo a correre attiviamo la nostra app che ci invia istantaneamente i nostri dati relativi a posizione, velocità, andamento della corsa. Invierà alla partenza una notifica ai nostri amici pigri ed attiva la playlist da Spotify in base al nostro mood.

 

Siamo connessi e ci muoviamo nel mondo. Grazie ai dispositivi entriamo in contatto scambiando dati. Se alcuni anni fa ci siamo meravigliati di come i nostri telefoni fossero diventati smart ora sono loro a renderci smart.

 

L'Iphone fu uno dei primi smart device. Diede inizio, con il suo ingresso nel mercato, ad una nuova era in cui i telefonini non erano più semplici strumenti di contatto, bensì strumenti rapidi, veloci, intelligenti, abili (appunto smart) utili per mille altre attività (fotografare, fare video, navigare, chattare, condividere, navigare per strada..) Grazie ad essi ed altri device integrabili, condividiamo in ogni istante un’enorme quantità di dati ed abbiamo aumentato grazie a questi dati la possibilità di imparare a conoscere meglio noi stessi e gli altri con cui ci connettiamo. 

 

Siamo diventati più smart grazie ai nostri device?

In teoria si. Seguendo l’esempio della corsa precedente, possiamo conoscere la frequenza cardiaca non più tastando il polso, ma con una cintura e sensori collegati al nostro device possiamo conoscere esattamente tutto quello che avviene nel mio corpo in ogni istante della corsa. E quindi agire meglio. Regolare il ritmo, la velocità in tempo reale, il consumo di energia non avverrà più basandoci sulla nostra personale sensazione di affaticamento, ma lasciandoci guidare dalle informazioni che leggiamo sui nostri display.

Abbiamo accesso, grazie ai dati, ad un nuovo tipo di informazione ma per poterla interpretare al meglio dobbiamo prima sviluppare la giusta competenza e consapevolezza. 

Conosciamo quali dati stiamo trasmettendo? E’ nostro interesse trasmetterli? Affrontiamo insieme tre questioni rilevanti:



Primo: Dato ergo sum.

 

In passato per costruire la nostra identità sociale bastava mostrarci in pubblico. Gli abiti, il modo di esprimerci, il nostro atteggiamento erano i dati che inviamo agli altri nei contesti sociali (piazze, bar, casa di amici…) per raccontare chi siamo.

 

Nell’epoca della socialità 2.0 a questa narrazione abbiamo aggiunto la connessione e condivisione social come strumento di selezione e filtro per raccontare la nostra immagine o, meglio, la parte di noi e della nostra vita che abbiamo interesse a mostrare.

 

Oggi con i sensori sempre attivi sul telefono, abbiamo consapevolezza di quali dati stiamo condividendo? Cosa potrebbe accadere se, accanto all’immagine di me intento a correre, le foto del panorama che fa da sfondo, con un sensore potessi tracciare e condividere anche le emozioni che provo? Quanto e come queste informazioni possono contribuire a costruire la rappresentazione che voglio mostrare agli altri? 

Posso scegliere cosa mostrare e cosa no? Perchè devo condividerle?



Secondo:  Chi gestisce le informazioni che invio? 

 

I giganti della Silicon Valley conoscono tutto di tutti. Google, Facebook, Microsoft e Amazon ricevono ogni giorno miliardi di dati dai loro utenti. Una centralizzazione e concentrazione simile nelle mani di pochi oltre a dare un enorme potere di conoscenza, crea il rischio di manipolazione e sicurezza rispetto ad informazioni sensibili. Ricordiamo il caso di Cambridge Analytica. 

 

«Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?». Giovenale

 

Facebook e Google sono applicazioni gratuite perché le “sosteniamo” attraverso i dati che forniamo. Oggi sono in grado di tracciare le nostre azioni, comportamenti, eventi e relazioni tra oggetti. Ma cosa potrebbe accadere se a queste aggiungessimo, grazie a sensori collegati al nostro corpo, le nostre emozioni?

Immaginiamo se aziende come Amazon potessero accedere alle immagini o tracciare i sentimenti che hanno attivato il nostro desiderio di acquisto.

 

Terzo.  E’ un dovere (morale) condividere i miei dati quando questi possono contribuire ad aumentare il livello di conoscenza nell’ecosistema in cui sto operando?

 

Pensiamo al ruolo della futura APP immuni. Dove inizia il bisogno di sicurezza degli altri e dove finisce il mio diritto di anonimato. Oggi molti dati che condividiamo possono essere elaborati in forma aggregata, ovvero possono fornire un’informazione rilevante (una tendenza, un comportamento d’acquisto, un dato statistico) a livello di gruppo di persone, ovvero senza necessariamente identificare i dati sensibili di una singola persona. Tra le ipotesi al vaglio della nuova app (ad oggi non ancora rilasciata) l’ipotesi di decentralizzazione e pseudonimizzazione del dato.  

La decentralizzazione prevede che l’informazione sia raccolta in un punto ma elaborata su ogni singolo dispositivo. La pseudonimizzazione impedisce di identificare una persona dai dati condivisi salvo poi ricostruire l’informazione in caso di necessità (persona contagiata). La privacy sembrerebbe essere salva, ma resta il fatto che per essere efficace l’app dovrebbe (al momento non è obbligatoria) essere scaricata da tutti. Per la salvaguardia di tutti, ognuno di noi dovrebbe contribuire a diffondere i propri dati. Abbiamo dunque il dovere morale di scaricarla? 

E se fosse lo Stato a obbligarci, magari con una ricompensa da destinare ai virtuosi? Sarebbe lecito ricevere un incentivo per farlo?

 

Distratti prima, distanti oggi, abbiamo perso la capacità di raccontare storie in grado di aiutarci a muoverci nella realtà che abbiamo costruito. Non tutto è perduto. Anche un evento disastroso come la pandemia può trasformarsi in un’opportunità.

La capacità di sviluppare consapevolezza intorno alle questioni rilevanti, ma soprattutto riuscire a fornire risposte concrete intorno alle nuove sfide della tecnologia, passerà attraverso la nostra capacità di analizzare, comprendere ed interpretare i problemi ed i nuovi significati che nascono intorno alle relazioni tra oggetti, uomini e dati. Non possiamo comprendere i significati delle parole che analizziamo se prima non ci concentriamo su come possiamo imparare a “familiarizzare” e "pensare" in questa nuova lingua.

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