Seneca, Bauman. Camminare è meglio che star seduti, correre è meglio che camminare
La parola chiave del nostro tempo è forse ‘incertezza’. E sinonimi possono essere precarietà o ancora un termine più inflazionato e ormai famoso, crisi. Quest’ ultima, vista nelle sue mille sfaccettature, ha provocato rotture e deficit, cambiamenti e mancanze. Cambiamenti e mancanze che ruotano attorno all’idea stessa di lavoro. Il termine “lavoro” deriva dal latino labor, uguale fatica. Oggi la fatica è riuscire a trovarlo, un lavoro. Studiare oggi per lavorare domani o lavorare subito (ad esempio, fondando una startup)? Quali speranze può avere un giovane (per giunta, laureato) sul suo futuro? Come vivere e bilanciare lavoro e vita sociale? Sono vari gli interrogativi che orbitano attorno a noi.
Certezze, zero. Un nuovo radicale relativismo (un Decadentismo 2.0 secondo alcuni) sembra dominare il mondo. Un tempo il lavoro (e non solo) rappresentava la chiave per realizzare le proprie ambizioni, definire un proprio ruolo sociale; voleva dire stabilità, certezza del reddito per il futuro, oggi aver un lavoro non assicura né garantisce nulla del domani.
Viviamo quella che il grande sociologo polacco Zygmunt Bauman definisce “modernità liquida”. Egli sta parlando proprio del nostro mondo, ed il lavoro è coinvolto in quell’istanza di flessibilità; ne è protagonista. Dal blog più sconosciuto ai quotidiani, dalla carta stampata alla TV, da anni ormai si parla ovunque del lavoro, del precariato, della disoccupazione: statistiche che sembrano sempre le stesse. Eppure abbiamo ancora bisogno di crederci, abbiamo bisogno di quell’atto creativo che Marx definiva il modo più autentico di essere al mondo, perché forse l’uomo realizza compiutamente la propria natura soltanto nel lavoro.
Un poeta inglese, Phillip Larkin, in un suo scritto definì il lavoro un veleno nauseabondo che attanagliava la sua vita, ma in un’altra composizione ammise che gli si confaceva più di una passeggiata al parco, riconoscendo quell’universale senso del dovere che regola le nostre azioni. La visione del lavoro di Larkin era a tratti deprimente, ma chiara e netta. Capiva che si trattava di qualcosa di più di un semplice mezzo per guadagnarsi da vivere. Era parte della sua identità: “perché anche in me si nasconde qualcosa che somiglia a quel veleno”.
Le crisi sono sempre un banco di prova per il mainstream, per le nostre idee e convinzioni, per il nostro approccio alla vita. Purtroppo, esse saranno sempre tra noi, “non sono come le tonsille, cose separate che possono essere curate da sole, ma come il battito del cuore, appartengono all’essenza dell’organismo” (Schumpeter dixit).
Esse ci pongono dinnanzi a cigni neri e non linearità delle cose, ci fanno rotolare dal centro del mondo verso la X, verso l’incognita, e richiedono un ripensamento. Occorre andare oltre per capirle e superarle.
Secondo Bauman “le conferme possono essere fuorvianti quanto rassicuranti: “ rischiano di istillare abitudini che un attimo dopo si riveleranno inutili o persino dannosi. […]camminare è meglio che starsene seduti, correre è meglio che camminare e cavalcare l’onda è meglio che correre. L’onda si cavalca meglio se si procede con leggerezza e brio; è bene non farsi troppi problemi sulle onde in arrivo; e tenersi pronti ad accantonare in qualsiasi momento le preferenze di un tempo.” Bauman continua: “lo slogan di oggi è flessibilità”.
“Fai così, mio Lucilio: rivendicati a te stesso, e il tempo che finora o veniva portato via o veniva sottratto o andava perduto raccoglilo e mettilo in disparte. Convinciti che le cose stanno così come scrivo: alcuni momenti ci vengono portati via, alcuni vengono sottratti, alcuni scorrono via”
Questo era il suggerimento di Seneca a Lucilio, nelle sue Lettere morali. Omnia Aliena sunt, tempus nostrum est. Così diceva Seneca, solo il tempo è nostro, solo quest’attimo è nostro. Quest'attimo che non cogliamo mai. E forse quello del buon Seneca era un invito. Una call to action ante litteram, un invito alla vita, a vivere. A prendere le redini, seppur limitate, di questo gioco, a entrare in campo e giocare, per quei 90 minuti o 100 anni che siano.
Le opportunità arrivano ancora una volta dall’ecosistema delle startup, dall’innovazione digitale, dalla sharing economy. Quest’ottica offre nuova linfa vitale al concetto stesso di lavoro. Fioriscono ovunque spazi di coworking e il caro posto fisso è soltanto un ricordo. Come risposta alla crisi, un’ on demand economy freelance invece che lavoro fisso.
John Rampton parla di una tendenza in atto negli Stati Uniti che porterà la maggior parte dei lavoratori a una condizione di freelance entro cinque anni (Techcrunch). L’innovazione deve entrare nelle vene di tutte le imprese, e nelle menti di tutti i potenziali imprenditori (giovani studenti ad esempio). Tutto cambia rapidamente, mentre ieri l’altro si parlava di app economy, da qualche ora è comparsa un’idea di economia dominata dai chatbot e dall’intelligenza artificiale. Siamo alla fine di un’epoca? O all’inizio di una nuova?
La singolarità è vicina – direbbe Ray Kurzweil, co-founder della Singularity University - e occorre approfondire tematiche trasversali, anche non appartenenti al proprio ambito di studio o di lavoro. Occorre ascoltare il buon vecchio Seneca e anche Warren Buffett che, tra i vari consigli per gli acquisti, o meglio per gli investimenti, mette al primo posto la risorsa t, il tempo, che ci permette di conoscere e apprendere: un investimento che avrà di sicuro il miglior return possibile.
Solo così possiamo leggere diversamente la parola crisi, vedendo in essa il “momento cruciale”, quando comincia (e non finisce) o cambia qualcosa.