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L'illusione ed il valore della conoscenza

 
In questo nuovo mondo, dominato dall’Economia della Conoscenza o meglio dall'Economia basata sulla Conoscenza, la velocità di apprendimento è diventata, e potrebbe essere d’accordo anche Ash Maurya, il nuovo unfair advantage (un vantaggio ingiusto, ovvero che non può essere facilmente copiato o acquistato). Perchè un unfair advantage? Perchè conoscenze, abilità approfondite per comprendere un problema, il creare una soluzione e continuare a innovare più velocemente di altri, avere un accesso esclusivo o privilegiato ad un canale, la rete di clienti e partner che costituiscono il nostro ecosistema di utenti, un team da favola con menti brillanti sono elementi che all’interno della nostra organizzazione creano valore e fanno la differenza.
 
Prima però di aprirci a nuove conoscenze è bene provare per un attimo a riflettere ed avere la giusta consapevolezza di quello che sono le nostre reali conoscenze rispetto ad un problema, ad un prodotto ed in generale a qualsiasi attività ci apprestiamo a considerare.
 
All'interno del loro libro "l'Illusione della conoscenza" di Steven Sloman e Philip Fernbach lanciano la sfida al problema con un test interessante: all'università di Liverpool la professoressa di psicologia Rebecca Lawson aveva messo alla prova le conoscenze degli studenti distribuendo copie di un disegno di una semplice bicicletta. La bicicletta era incompleta e mancava, tra le altre parti, di catena, di pedali e di intere sezioni del telaio. Aveva quindi chiesto ai suoi studenti di completare il disegno. I risultati furono disastrosi. Alcuni avevano due serie di pedali, altri mancavano di parti cruciali del telaio. Ognuno di noi sa come è fatta una bicicletta. Eppure laddove volessimo provare anche noi a svolgere il compito della Lawson, correrremmo il rischio di sbagliare.
Come avvenne per gli studenti, saremmo di fronte ad una scomoda verità: non siamo in grado di articolare la conoscenza che siamo sicuri di possedere, quando la nostra comprensione è in effetti piuttosto superficiale.
 
Come è possibile?
 
Le persone hanno l'abitudine di sopravvalutare le loro conoscenze di come funzionano le cose, anche quando non ne sanno molto. Questo divario tra comprensione assunta e conoscenza effettiva è chiamato l'illusione della profondità esplicativa oppure detta brevemente IoED.
 
Altri test hanno rivelato che le persone sopravvalutano la loro conoscenza per tantii tipi di oggetti di uso quotidiano, dalle cerniere ai bagni agli orologi da polso.  L'inevitabile conclusione è che le persone non sanno quanto pensano di sapere.
 
Questo ci porta a una domanda che in passato ha tormentato i primi scienziati cognitivi: quanta conoscenza abbiamo?
 
Nella prima metà del ventesimo secolo, il lavoro di luminari matematici come Alan Turing suggeriva che la mente potesse funzionare più o meno allo stesso modo di un computer - e molti dei primi scienziati cognitivi fecero loro questa teoria fino a quando, negli anni '80, lo scienziato cognitivo  Thomas Landauer ha ribaltato questo modello.
Landauer pensava che, se il compito principale del cervello fosse svolgere funzioni simili a computer, come la memorizzazione e l'elaborazione delle informazioni,  sarebbe stato utile valutare le dimensioni della conoscenza umana in termini computazionali. Landauer calcolò quanti byte sarebbero necessari per memorizzare il vocabolario medio dell'adulto. Da questo numero, ha estrapolato le dimensioni approssimative dell'intero archivio di conoscenze di un adulto medio. Eseguì diversi calcoli simili, ma ogni stima fatta su soggetti diversi ed analizzando informazioni appartenenti a più sfere conoscitive riportavano sempre lo stesso risultato: circa un gigabyte.
 
L'esperimento dimostrava un punto importante: il nostro cervello, a differenza dei computer, non è progettato per funzionare principalmente come una repository di conoscenza.  Fatti non fummo..direbbe dante ad essere progettati per raccogliere grandi quantità di informazioni. 
 
Eppure il nostro cervello nei secoli si è evoluto ed ha aumentato la sua capacità cognitiva. Ora, visto che Il mondo intorno a noi è un ecosistema infinitamente complesso (immaginiamo che non esiste una persona, affermano gli autori, che capisca tutto ciò che c'è da sapere sugli aeroplani moderni) e non immagazziniamo enormi quantità di informazioni, qual è stata la leva che ha fatto evolvere il nostro cervello?
 
La relazione causa – effetto è una delle prime relazioni logiche che fin da bambini impariamo a declinare nella nostra quotidianità. Ragionare dall'effetto alla causa è semplicemente più difficile del ragionamento dalla causa all'effetto. Per esempio, è molto più facile prevedere che qualcuno con un'ulcera allo stomaco provi dolore piuttosto che provare a comprendere che qualcuno che soffre di dolore potrebbe avere un'ulcera allo stomaco. Ora, è proprio la capacità di ragionare da effetto a causa ciò che ha reso l' Homo sapiens una specie così di successo. Nessun altro animale, infatti, è capace di ragionamento diagnostico sofisticato. E senza di esso, saremmo privi di innumerevoli abilità utili, come la capacità di diagnosticare malattie e condurre esperimenti scientifici. Per questo motivo sviluppiamo costantemente questa capacità grazie soprattutto all'utilizzo della narrazione.
Le storie che ascoltiamo, che raccontiamo rappresentano il modo in cui l'umanità ha il senso causale del mondo. Alcune storie arrivano indietro nel tempo, spiegando da dove veniamo (il libro biblico della Genesi è forse l'esempio più famoso), mentre altri si estendono in avanti, immaginando dove potremmo andare. Quest'ultimo tipo di storia - pensate alla fantascienza e ai trattati utopici - ha svolto un ruolo significativo nel progresso umano.
Le storie ci facilitano la visione di eventi controfattuali e ci regalano possibili alternative alle azioni attuali. Se la gente non avesse potuto farlo, la democrazia non sarebbe mai sorta dalla monarchia e nessun essere umano avrebbe mai messo piede sulla luna.
 
 
Altra caratteristica è che ragioniamo in due modi diversi: intuitivamente e deliberatamente (ovvero quando prendiamo una decisione dopo opportuna discussione o con estrema ponderazione)
 
Rispondiamo a questa domanda! Quale nome di animale inizia con la lettera "e" ? Abbiamo pensato subito "elefante"? Se è così, non siamo soli.
Per molte persone, questa risposta viene istantaneamente alla mente, con poco o senza alcun ragionamento cosciente. Perché?
Quando si tenta di rispondere a una domanda o di risolvere un problema, le persone si impegnano in uno dei due tipi di ragionamento. O usano l' intuizione  o usano la deliberazione .
 
L'intuizione è ciò che ci ha portato a rispondere "elefante!" Ma è, al tempo stesso, è anche ciò che ci rende vittime dell'illusione della profondità esplicativa. Usiamo l'intuizione  perché è sufficiente per gli scopi quotidiani e ci fa guadagnare tempo nel formulare risposte immediate ai continui stimoli. Ma quando le cose si complicano, quando dobbiamo disegnare una bicicletta piuttosto che guidarla, ad esempio, l'intuizione non basta.
Non solo. Se da un lato le intuizioni sono soggettive, le deliberazioni, d'altra parte, richiedono l'impegno con una comunità di altri possessori di conoscenza.  Anche se dobbiamo decidere in solitudine, saremmo portati a conversare con noi stessi come se parlassimo con qualcun altro. Una caratteristica fondamentale per noi essere umani è appunto esternalizzare i processi di pensiero interni per aiutarci a ragionare meglio.
 
Con il suo famosissimo  "Cogito, ergo sum" (Penso, dunque sono),  Cartesio sosteneva che è la nostra capacità di pensare, non il nostro corpo fisico, ciò che determina la nostra identità, e che impegnarsi nel pensiero è distinto dalle attività fisiche che svolgiamo. Questa enfasi sulla preminenza del pensiero ha contribuito ad una supposizione errata fatta dai primi scienziati cognitivi, ovvero che il pensiero risiede solo nella mente. 
In realtà le cose stanno in maniera diversa. Quando pensiamo impieghiamo anche il nostro corpo ed il mondo che ci circonda, usandoli come strumenti per assistere i nostri calcoli e le nostre elaborazioni quotidiane.  Pensiamo a come i bambini imparano a contare oppure, ad esempio, quando dobbiamo raccogliere una palla ribattuta in una partita di baseball. Non è necessario elaborare una serie di calcoli complicati per determinare dove atterrerà la palla e dove prenderla. Piuttosto, ci basterà mantenere lo sguardo fisso su di essa e muoverci nella direzione in cui sta cadendo.  
Anche le nostre emozioni funzionano come una sorta di banco di memoria. Non abbiamo bisogno di memorizzare una lunga lista di sostanze che dobbiamo evitare di toccare o consumare, per esempio, perché semplicemente sentiamo disgusto quando ci imbattiamo in una pozza d'acqua fetida o di un mucchio di feci. In questo modo, le risposte fisiche o emotive ci regalano conoscenza.
 
Corpo ed emozioni non sono i nostri soli alleati. Il nostro è un cervello sociale. Vivere l'uno con l'altro e collaborare a determinati progetti esige la capacità di incontrarsi.
Infatti, se non fossimo in grado di ripartire il lavoro cognitivo, la vita moderna sarebbe impossibile. Pensiamo semplicemente alla nostra casa. Nessuno di noi sarebbe in grado di costruirla da solo. Non esisterebbero le abitazioni senza una moltitudine di specialisti, dagli architetti agli elettricisti, dagli idraulici agli stuccatori. La divisione del lavoro cognitivo rende possibile prendere una sola abilità (costruire case) e scomporla in sottoprodotti, come l'impianto idraulico e le pareti dell'edificio. Inoltre consente ai muratori, anche se sanno poco di impianti idraulici, di costruire muri in cui gli idraulici possono inserire tubi. Il tutto è possibile per un'altra caratteristica fondamentale: l'intenzionalità condivisa . Ognuno di noi può collaborare con gli altri a patto che tutti condividano la stessa intenzione,  come, nell'esempio precedente lo è il costruire una casa.
 
Attenzione  però, c'è anche un effetto collaterale legato al pensare insieme agli altri: il pensiero di gruppo. Come lo psicologo sociale Irving Janis lo ha definito,  il pensiero di gruppo è la tendenza delle comunità (o di una sufficiente maggioranza dei loro membri) ad arrivare acriticamente ad un consenso su un particolare problema. Basta solo immaginare per un attimo a quando sosteniamo una tesi politica senza nemmeno averne cognizione ma solo di riflesso rispetto alla nostra cerchia sociale. Quando tutti intorno a noi credono la stessa cosa, è difficile che nasca un opinione o una prospettiva differente. 
 
Abbiamo dunque una prospettiva abbastanza ampia sul modo in cui elaboriamo conoscenza. A questo punto, ritorniamo alla domanda iniziale. Come possiamo portare all'interno della nostra organizzazione la capacità di acquisire conoscenza? E'una questione di mindset, è un insieme di abilità ed approcci da coltivare.
 
Per prima cosa, è importante sempre ricordare a noi stessi la nostra ignoranza. Una volta che siamo consapevoli di quanto poco sappiamo, avremo molte più probabilità di cercare aiuto intorno a noi per acquisire nuova conoscenza.  Dobbiamo tenere a mente: non pensiamo mai da soli. Se abbiamo un'idea o un progetto in mente dobbiamo per prima cosa allargare lo spettro delle nostre assunzioni ed includere nuove prospettive. Allargare i confini della nostra organizzazione per acquisire nuova conoscenza coincide con:
 
1) la capacità di avere consapevolezza della nostra visione personale, concentrare e guidare le nostre azioni, la capacità di leggere ed interpretare la realtà e gli altri intorno a noi in maniera più oggettiva.
2) la capacità di liberarsi dai bias cognitivi, schemi di pensiero, pregiudizi che ci impediscono di vedere la realtà così com’è.
3) la capacità di mettere a sistema e creare una visione risultante attraverso l’inclusione e la valorizzazione della visione di tutti i membri dell’organizzazione
4) la capacità di saper comunicare, dialogare e leggere le emozioni dei membri di un’organizzazione, per un team che sia in grado di pensare e vedere come fosse un tutt’uno.
 
 
L’impresa non è separata dall’ambiente nel quale opera, ma è parte integrante di esso. Per innovare, ancor prima della tecnologia, occorre comprendere e gestire ecosistemi fatti di persone con desideri, obiettivi, conoscenze ed esperienze.  
Ricordiamoci che la tecnologia non porta con sé l'intenzionalità di innovare. Le macchine possono sembrare intelligenti ma, in realtà, hanno semplicemente accesso a vaste riserve di informazioni che riescono ad elaborare molto rapidamente e  fare ciò per cui sono state programmate. Il desiderio e la capacità di innovare parte dai noi stessi, dalle persone che condividono con noi il nostro percorso per poi, attraverso la conoscenza, diventare un ponte per creare nuove relazioni

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