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Le macchine non si innamorano

Il contesto

In un precedente articolo dedicato alle riflessioni di Harari e all’integrazione del lavoro degli uomini con tecnologie avanzate, abbiamo analizzato lo stato di necessità in cui potrebbe trovarsi (per molti già si trova) l’uomo ai margini di questa nuova rivoluzione. Stavolta, non sono le sue capacità fisiche ad essere minacciate dalle macchine, bensì le capacità cognitive. Infatti, se con le rivoluzioni industriali precedenti (macchina a vapore e del carbone, motore a scoppio, elettricità, petrolio, energia atomica, astronautica ed informatica) l’uomo si è gradualmente allontanato dal lavoro manuale affidandolo all’efficienza e alla potenza delle macchine, oggi l’impatto di intelligenza artificiale, automazione e algoritmi spingono l’uomo a riposizionarsi nel quadro dei nuovi lavori e competenze e ridefinire la sua unicità.


Se l’algoritmo può elaborare una quantità maggiore di informazioni in un tempo ridotto, analizzando in rapida sequenza una serie di possibilità, cosa può fare l’uomo? O, meglio, cosa sa fare l’uomo che la macchina ancora non sa fare?

 

Se analizziamo i nuovi paradigmi del mondo dell’impresa e quelli a noi cari dell’innovazione dove sempre più il lavoro diventa relazionale ed emozionale, possiamo osservare come due fattori fondamentali emergono:

  • la necessità di relazione e cooperazione (non si crea valore se non con gli altri, con team, con partner.)
  • l’acquisizione continua e la capacità di elaborare ed interpretare nuove conoscenze.


Realizzare nuovi prodotti e servizi, disegnare nuovi modelli di business, creare innovazioni dirompenti oppure, in generale, la creazione del valore dipende in larga misura dalla qualità delle nostre connessioni e relazioni e, soprattutto, dalla qualità della conoscenza (anch’essa integrata) dei nostri clienti, dei nostri partner, le informazioni a cui posso accedere grazie a nuovi strumenti, tecnologie, al marketing, ecc.

 

Creare un’organizzazione improntata sulla conoscenza vuol dire:

 

Mettere al centro di tutto la centralità della persona, dell’apprendimento e dell’applicazione dell’intelligenza e della creatività al lavoro e all’organizzazione, come pure nella realizzazione di prodotti, servizi e processi e, in generale, al miglioramento delle esperienze intorno ai clienti.

Il secondo aspetto fondamentale è che la qualità e l’unicità di saperi e capitale umano (come accumulazione di saperi, esperienze e competenze da parte di lavoratori e imprese) è un asset fondamentale per assicurare la solidità e la sostenibilità delle imprese, e, quindi, la sostenibilità di occupazione e di benessere.

 

Creare valore con le persone, disegnare valore per le persone: ecco che nel modo di relazionarsi e di acquisire conoscenza, l’uomo può riscoprire la sua unicità. Non siamo unici rispetto alle macchine solo per le nostre esperienze, conoscenze,competenze trasversali (flessibilità, intelligenza emotiva, pensiero critico...). Siamo unici perchè non impariamo solo, bensì comprendiamo, desideriamo, amiamo.

 

Comprensione, desiderio, eros tra corpi interconnessi

 

In un mondo che si fa sempre più complesso, dove corpi, oggetti, dati tecnologie sono interconnessi, se l’uomo deve riscoprire la sua Humanitas è sempre un porto sicuro guardare all’antica Grecia e, se si parla di amore e desiderio, non possiamo che coinvolgere bellezza ed eros (inteso come desiderio).

Quando vediamo qualcosa di squisita bellezza, ci commuoviamo ed emozioniamo. La bellezza è essenziale nella nostra vita, poiché ci fa desiderare di diventare al di sopra di noi stessi ed evolverci.

Un’organizzazione/un team che punta alla crescita e ad evolversi, deve far sua la bellezza di conoscere, apprendere, relazionarsi.

La bellezza è desiderio, ma anche uno sguardo rivolto a qualcosa. Ad un oggetto, ad una persona, ad un obiettivo. Rivolgere lo sguardo, la propria attenzione vuol dire prendersi cura, emozionare (dal latino emovère muovere fuori). La bellezza si nutre dell’agire, della dinamicità non è un semplice osservare ma sentire, desiderio di comprendere gli altri. Per Heidegger l’uomo deve prendersi cura delle persone con cui si relaziona, cura non vuol dire solo attenzione ma interesse vivo.

Ecco allora che lavorare con l’altro, creare valore con e per le altre persone ci impone uno sguardo ed un atteggiamento diverso che una macchina non può sperimentare. Prendersi cura dei propri clienti, del proprio team, dei nostri partner, del proprio progetto. Un imprenditore alla guida della propria impresa, un artigiano nella sua opera, un analista che deve interpretare è guidato dal bello se accoglie il desiderio di creare qualcosa e comprendere non solo la necessità di elaborare.

Non possediamo la conoscenza ma la acquisiamo dagli altri, dalle nostre connessioni.
Amare qualcuno vuol dire desiderarlo. Per Galimberti, “smettiamo di amare quando il desiderio, che è mancanza, diventa possesso”. Ecco che una macchina non può far suo quel desiderio costante alimentato dalla mancanza, che è il collante naturale delle nostre relazioni. Un algoritmo elabora ed impara. Un uomo non finisce mai di conoscere se fa suo il desiderio di comprendere.

 

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