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Philo & Management 5. Imparare a mettere in discussione lo scopo del proprio lavoro con Hannah Arendt

"Quello che propongo è molto semplice: nulla più che pensare a cosa facciamo. "

Ogni giorno siamo portati a valutare tra ciò che "bene" e ciò che è "male". Un processo che attuiamo anche nelle più piccole decisioni quotidiane, inconsapevolmente, il nostro incoscio agisce cercando di rispettare ciò che crediamo essere etico, giusto e corretto. L’etica rappresenta, sul piano personale e professionale, un elemento di valutazione che anche implicitamente guida i nostri processi cognitivi e decisionali. Innovazione ed etica sono concetti molto più vicini di ciò che superficialmente ci appare. Come spiegato con semplicità dalla filosofa contemporanea Arendt, l'etica è una forma di conoscenza. Se consideriamo l'etica come un sapere interiore che sviluppiamo interrogando il nostro inconscio, possiamo comprendere la sua stretta connessione con l'innovazione, intesa come la capacità di trasformare la conoscenza implicita in conoscenza e patrimonio per l'umanità. 

Il mondo degli affari, che ci porta ogni giorno ad essere più veloci, più efficienti, più performanti, sembra ostacolare il pensiero etico. Ambizione, senso esasperato del dovere, linguaggio tecnocratico ed altri fattori possono distrarci dal reale scopo del nostro lavoro. Il concetto di “banalità del male” di Hannah Arendt può aiutarci a focalizzare le nostre azioni per riportare il pensiero etico al centro del nostro lavoro quotidiano e di quello delle nostre organizzazioni.

In campo aziendale, l’etica non rappresenta solo un valore guida per ripristinare il valore dell’individuo. E’ un importante mezzo di coesione tra membri di una organizzazione, guida le innovazioni sociali e quindi economiche. Esiste un forte legame tra pensiero etico, capacità di innovazione e prospettive di crescita.

 

Il concetto di “banalità del male” di Arendt

Negli affari, ciò che possiamo identificare come il “male” non è necessariamente qualcosa o qualcuno contro legge. Capita spesso di non comprendere il perchè di alcune azioni compiute nei nostri confronti da parte di clienti, colleghi e/o dirigenti. Semplicemente sappiamo che subiamo azioni ingiuste, ma non riusciamo a comprendere perchè "ci fanno del male".

Seconda Arendt, una situazione spiacevole che crea disagio o che ci impedisce di avanzare professionalmente, è spesso creata in realtà da una persona ordinaria, esattamente una persona normale quanto noi. Ciò che quella persona subisce o attua non è altro che una trasfigurazione interiore dell’etica. Quell'individuo rinuncia ad interrogarsi interiormente, ed il risultato è una deviazione del comportamento verso decisioni e azioni errate, non sapienti.

Arendt infatti sostiene che in realtà ciò che noi tendiamo ad identificare come male, non è altro che un’assenza di interrogazione etica.

Il male è banale perchè corrisponde ad una incapacità di mettere a fuoco, di pensare e prospettare le conseguenze delle nostre azioni. Pensare è in tal caso riferito al continuo confronto che attuiamo interiormente con noi stessi, quando consideriamo le nostre azioni o quando siamo chiamati alla valutazione di una decisione difficile, che richiama i nostri principi morali.

Siamo realmente coerenti solo quando realizziamo un dialogo trasparente con noi stessi.  Se l’altro “io” tende a giustificare o a considerare “il male” come semplici accadimenti sui quali non abbiamo potere d’azione, o ancora, se l’altro “io” non riconosce i limiti del corretto agire, non prova imbarazzo, dubbio, esitazione, rimorso o vergogna allora si realizza una violazione dell’etica.  Il pensiero non sempre ci impedisce di sbagliare, ma riduce la possibilità che ciò accada perché è avvenuto un confronto, un dialogo interiore che ha chiarito quale azione va perseguita.

Un esempio tanto semplice quanto efficace per comprendere quanto il male sia banale è ciò che Arendt potè osservare durante il processo Eichmann. Nel 1961 Hannah Arendt in qualità di inviata speciale del settimanale New Yorker, segui le 120 sedute del processo di Eichmann a Gerusalemme.

Durante il governo nazista, Otto Adolf Eichmann in qualità di responsabile della IV-B-4 (competente sugli affari concernenti gli ebrei), ricoprì un incarico importante: coordinare l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio.

Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato "soltanto di trasporti". L’irrazionalità di una tale risposta rivela la banalità del male. Arendt infatti sostenne che "le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso".

Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di pensare. Una incapacità che ha impedito a Eichmann di non comprendere cosa stava per commettere, che gli ha impedito di far prevalere la sua umanità, la sua morale e quindi di scegliere un comportamento corretto, etico. 

 

Cos’è l’etica?

 

Il concetto di etica si riferisce al nostro modo di essere nel mondo: alle nostre abitudini, alle nostre personali concezioni, ai nostri valori, alla nostra capacità di discernere tra bene e male, tra ciò che è giusto fare o meno. Potremmo considerare l'etica una guida che ci consente di affrontare umanamente e coscientemente ogni situazione personale e lavorativa.

L'etica è un processo di riflessione che consente di prendere una decisione in responsabilità, consapevolmente, riguardo a cosa è buono o cattivo, anche se sono parole raramente usate nel mondo degli affari. Prendere una decisione in responsabilità significa che si può rispondere per quella decisione. L’etica è dunque conoscenza.

 

Etica & Innovazione

Il rapporto tra etica ed innovazione è molto più stretto di ciò che naturalmente crediamo. L’etica rappresenta una forma di conoscenza interiore in grado di guidare le nostre azioni, una conoscenza naturalmente connaturata con il progresso sociale e quindi tecnologico.

L’innovazione non è difatti un “colpo di genio” che ci fa intravedere la possibilità di un cambiamento radicale. E questo vale sia quando parliamo di innovazione di un prodotto, di un processo o di business. Innovare non significa altro che utilizzare la ricerca, la comprensione, l'intuito e  la conoscenza accumulata per tentare di trasformare la conoscenza che padroneggiamo in qualcosa di assolutamente nuovo, che crediamo possa migliorare l'uomo e la collettività. 

L’innovazione è quindi la crisi che si genera tra sapere ed etica. La nuova conoscenza crea infatti uno sdoppiamento tra ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo ancora. Ogni passo della scienza, dalla medicina alla robotica, ha creato un varco nella conoscenza accumulata e ne ha sviluppata di nuova. 

In tal caso il compito dell’etica non è riportare equilibrio, non è ripristinare la conoscenza pre-esistente all’innovazione. Nelle scienze sociali, come nelle scienze esatte, l’innovazione perturba l’ordine delle cose. Compito dell’etica è assegnare valore umano e sociale a questa nuova innovazione, battezzarla a vantaggio della collettività e società.

L’etica ci aiuta a comprendere se una innovazione è valida per l'uomo in quanto individuo, se essa rappresenta una nuova dimensione della conoscenza che contribuirà a realizzare maggiore benessere per la collettività.

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